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Il decreto legislativo 18 giugno 2001, n. 231 (“Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”) ha introdotto nel nostro ordinamento un regime di responsabilità amministrativa a carico degli Enti per alcuni reati commessi, nell’interesse o vantaggio degli stessi, da persone fisiche che rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione, da una sua unità organizzativa autonoma, da chi esercita di fatto poteri di gestione e controllo e da persone soggette a direzione e vigilanza.
Esso ha rappresentato una grossa svolta nell’ordinamento italiano perché ha portato al superamento del principio secondo il quale “societas delinquere non potest” (le organizzazioni non possono commettere reati), principio peraltro chiaramente sancito dell’articolo 27 della Costituzione secondo cui “la responsabilità penale è personale” – tracciando a carico degli enti (persone giuridiche e associazioni) una responsabilità che il legislatore denomina “amministrativa”, ma che nella sostanza ha portata penale.
Ecco allora che, a fianco della responsabilità della persona fisica autore del reato, si aggiunge una responsabilità distinta che è quella dell’ente (che sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile) e che sarà oggetto di accertamento autonomo da parte del giudice penale.
Tale responsabilità estende i propri pesantissimi effetti sul patrimonio dell’Ente (e può portare anche alla revoca dell’autorizzazione necessaria per svolgere l’attività o al commissariamento giudiziale dell’ente) e, indirettamente, sugli interessi economici dei soci.
La responsabilità dell’ente sussiste, però, solo se sono soddisfatte le seguenti condizioni:
L’ente, invece, non risponde se le persone fisiche che hanno commesso il reato lo hanno fatto nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.
Con il decreto 231 il legislatore ha però previsto la possibilità per l’Ente di andare esente dalla predetta responsabilità nella sola ipotesi esimente in cui:
Va comunque osservato che l’adozione di un modello organizzativo a norma del decreto 231 non rappresenta un obbligo per l’ente ma una facoltà, e, quindi, una tutela per lo stesso nell’ipotesi in dovesse essere commesso uno dei reati presupposto.
Inoltre, sicuramente, l’adozione del Modello 231 ed il suo continuo aggiornamento ed efficace applicazione evita possibili azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori che, se non vi provvedessero, esporrebbero l’ente al rischio di gravi conseguenze patrimoniali.
Rileva subito alcuni possibili punti deboli rispetto ai reati previsti dal D.Lgs. 231/01.
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Le disposizioni previste dal d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231 si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica (art. 1, comma 2); rimangono esclusi lo Stato, gli enti pubblici territoriali (Regioni, Province e Comuni), enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale, come, ad esempio, i partiti politici e i sindacati (art. 1, comma 3).
Destinatari sono dunque una ampia categoria di soggetti: le persone giuridiche private riconosciute, comprese le fondazioni, le società per azioni (non però quelle in formazione), le società in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, anche con un unico socio, le società per azioni con partecipazione dello Stato o di enti pubblici, le società estere con sede secondaria nel territorio dello Stato, le società cooperative, le mutue assicuratrici; ed ancora le società semplici, le società in nome collettivo, le società in accomandita semplice, le società di intermediazione mobiliare (SIM), le imprese di investimento di capitale variabile (SICAV), le società di gestione di fondi comuni di investimento, le società sportive; infine le associazioni non riconosciute, le quali ricomprendono una serie di soggetti privi di personalità che svolgono istituzionalmente un’attività non determinata da fini di profitto.
Ancora rientrano nelle disposizioni in esame: i comitati, le società di fatto e le società irregolari, i consorzi con attività esterna (anche non costituiti in forma societaria), gli enti pubblici economici (ossia gli enti a soggettività pubblica ma privi di pubblici poteri, i quali hanno come oggetto principale o esclusivo l’esercizio di un’attività economica ed agiscono secondo le norme di diritto privato, come, ad esempio, gli istituti di credito di diritto pubblico).
Per anni è stato controverso se dovessero rientrare le imprese individuali, data una mancanza di esplicita menzione nella norma. Sembra tuttavia prevalente l’interpretazione che vede applicabile la normativa anche alle imprese individuali visto che le stesse possono essere assimilate alle persone giuridiche nelle quali viene a confondersi la persona dell’imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata attività.
Rileva subito alcuni possibili punti deboli rispetto ai reati previsti dal D.Lgs. 231/01.
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Il D.Lgs. 231/2001 prevede le seguenti tipologie di sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato:
Le sanzioni pecuniarie si applicano sempre e sono stabilite attraverso il meccanismo delle quote che si articola in due fasi:
L’ammontare finale è dato dalla moltiplicazione tra l’importo della singola quota e il numero complessivo di quote che quantificano l’illecito amministrativo; la sanzione pecuniaria potrà quindi avere un importo che va da un minimo di 25.800 euro ad un massimo di 1.549.000 euro, a seconda delle condizioni dell’ente.
In presenza di determinate condizioni la sanzione pecuniaria può essere ridotta.
Le sanzioni interdittive si applicano esclusivamente in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste e se ricorre almeno una delle seguenti condizioni:
Le sanzioni interdittive hanno una durata limitata (non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni) e sono costituite da:
La pubblicazione della sentenza di condanna può essere ordinata solo qualora sia applicata all’ente una sanzione interdittiva, ha un carattere accessorio in quanto la sua applicazione può avvenire solo contestualmente ad una sanzione amministrativa ed è discrezionale, in quanto è il giudice a stabilire quando applicarla. La pubblicazione della sentenza di condanna opera nei casi più gravi come pubblicità denigratoria nei confronti dell’ente. La sentenza è pubblicata una sola volta, per estratto o per intero:
La confisca del prezzo o del profitto del reato, viene sempre disposta nel caso di sentenza di condanna, salvo per la parte che può essere restituita al danneggiato. Qualora non fosse possibile confiscare il prezzo o il prodotto, la confisca può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore pari al prezzo o al profitto del reato.
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Non ogni reato previsto dall’ordinamento italiano comporta la responsabilità degli enti, ma solo quelli previsti espressamente dal D. Lgs. 231/2001, denominati
Originariamente i reati previsti dal Decreto si limitavano a poche fattispecie. La normativa era stata infatti inizialmente prevista per le imprese che si rapportavano con la pubblica amministrazione e quindi prevalentemente per colpire i reati di corruzione, concussione, truffa ai danni dello stato.
Successivamente a seguito di diversi interventi legislativi, il campo dei reati è stato esteso notevolmente, allargando di conseguenza anche la platea dei soggetti interessati.
Rileva subito alcuni possibili punti deboli rispetto ai reati previsti dal D.Lgs. 231/01.
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Il D.Lgs. 231/2001 stabilisce i termini entro i quali si configura per la responsabilità dell’Ente, che possono essere, in sintesi, descritti come segue:
D’altra parte, l’Ente non risponde se le persone come sopra elencate hanno commesso il reato nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.
La peculiarità del D.Lgs. 231/01 è data dal fatto che definisce le condizioni che, se rispettate, costituiscono l’esimente da responsabilità per l’ente.
Più in dettaglio, se il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale, l’ente non risponde se prova quanto segue:
a) L’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) Il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) Le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) Non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b).
È importante ricordare che l’adozione del modello e la nomina dell’Organismo di vigilanza non rappresentano azioni obbligatorie ai sensi del D.Lgs. 231/2001, bensì corrispondono ad una scelta che deve operare l’organo amministrativo dell’ente volendo beneficiare dell’esonero da responsabilità, non dimenticando che a tal fine devono essere verificate anche le altre condizioni di cui sopra (lettere c) e d)).
Le medesime considerazioni trovano applicazione anche nel caso in cui il reato sia stato commesso da soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza dei soggetti apicali. In questo caso l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e controllo, ma tale inosservanza è, in ogni caso, esclusa se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quelli verificatosi.
È evidente, quindi, che, per quanto l’attuazione delle azioni che costituiscono l’esimente da responsabilità non sia obbligatoria (e quindi la loro assenza non espone l’Ente al rischio di sanzione), in ogni caso ciò consente all’Ente di beneficiare di una tutela con effetti rilevanti se si considera l’entità delle sanzioni previste ed anche il fatto che tra i reati presupposto non vi sono solo reati dolosi, bensì anche reati colposi quali quelli in materia di sicurezza sul lavoro e ambiente. La scelta di provvedere, o meno, a dotare l’Ente di un Modello organizzativo e di nominare l’Organismo di vigilanza spetta all’organo amministrativo dell’Ente che si assume, così, la responsabilità di un’importante decisione gestionale, anche rispetto alle altre parti interessate (ad esempio i soci).
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Il modello di organizzazione, gestione e controllo (spesso indicato con l’acronimo MOG) costituisce, ai sensi del D.Lgs. 231/2001, uno degli elementi necessari ad esimere l’ente da responsabilità nel caso in cui venisse commesso uno dei reati indicati dal decreto stesso. In altre parole, il D.Lgs. 231/2001 non stabilisce l’obbligo per l’Ente di dotarsi di un MOG, bensì prevede che vi debba provvedere qualora intenda beneficiare delle condizioni esimenti da responsabilità.
Non sono presenti nel D.Lgs. 231/2001 indicazioni precise e puntuali su come debba essere strutturato il modello organizzativo, e su quali debbano essere i contenuti, per quanto sia ribadito che deve essere:
Il MOG non potrà quindi ridursi ad un documento (o a un insieme di documenti) che contiene dei principi di comportamento che rimangono solo “sulla carta” e quindi sostanzialmente inapplicati, perché una situazione di questo tipo non potrà tutelare in alcun modo l’Ente nel caso in cui sia commesso uno dei reati presupposto.
Negli anni sono state emesse linee guida da associazioni rappresentative di alcuni settori (quali ad esempio Confindustria) che forniscono indicazioni più operative per lo sviluppo del MOG, e, d’altra parte, altre indicazioni utili provengono anche dalla giurisprudenza che è stata via via emessa.
Dal nostro punto di vista è fondamentale che il modello sia calato nella specifica realtà dell’ente e che tenga conto delle caratteristiche e peculiarità dello stesso, e questo riteniamo rappresenti uno dei nostri punti di forza nel fornire il supporto consulenziale all’Ente.
A livello normativo troviamo un unico ambito in cui sono fornite indicazioni piuttosto precise sui contenuti del modello organizzativo, ed è quello connesso alla salute e sicurezza sul lavoro, rispetto al quale l’art.30 del D.Lgs. 81/2008 contiene un richiamo esplicito ai modelli organizzativi di cui al D.Lgs. 231/2001 e indicazioni puntuali degli elementi di cui il MOG deve tenere conto.
Sulla base dei suggerimenti contenuti nelle linee guida emesse dalle varie associazioni di categoria, si è consolidata la prassi di strutturare il MOG in una “parte generale” (che include, tra l’altro, la descrizione dell’Ente e delle sue attività), ed in una serie di “parti speciali” (che contengono le misure da attuare in relazione a specifiche aree di reato).
In generale, il contenuto del modello organizzativo include i seguenti elementi:
Il modello, inoltre, deve tenere conto di quanto stabilito in materia di whistleblowing dalla Legge 179/2017, che tutela chi effettua segnalazioni riguardanti reati o irregolarità rispetto al Modello Organizzativo ed al D.Lgs.231/01.
È da prevedere, infine, la formazione di tutte le figure destinatarie del Modello organizzativo sui contenuti dello stesso, al fine di garantire la necessaria consapevolezza sull’importanza di applicare costantemente quanto in esso stabilito.
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L’Organismo di Vigilanza rappresenta uno degli elementi imprescindibili ai fini dell’esimente da responsabilità da reato per l’ente, ai sensi del D.Lgs.231/01.
Come indicato nel Decreto stesso, infatti, non è sufficiente predisporre (ed attuare) un Modello di organizzazione, gestione e controllo efficace a prevenire i reati, bensì è necessario che sia nominato un Organismo di Vigilanza (spesso indicato con l’acronimo ODV), che ha il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza del modello, nonché deve curare l’aggiornamento del modello stesso.
Il Decreto prevede che l’Organismo di Vigilanza debba essere dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, ma nulla specifica in merito ad altri aspetti quali, ad esempio, la composizione dell’organismo.
L’Organismo di Vigilanza è nominato dall’organo amministrativo dell’Ente, che effettuerà la scelta dei componenti tenendo conto dei seguenti aspetti:
In aggiunta a quanto sopra, non va dimenticato che il D.Lgs.231/01 indica in modo esplicito che, ai fini dell’esimente, non deve esservi stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’ODV. Ciò lascia intendere che l’Organismo di vigilanza dovrà operare con continuità d’azione, per garantire una vigilanza effettiva, e non meramente formale. E un contributo alla continuità d’azione viene anche dal fatto che il D.Lgs.231/01 stabilisce che il Modello di organizzazione, gestione e controllo deve prevedere obblighi di informazione verso l’ODV.
Molto si dibatte e si è dibattuto su aspetti quali il numero di componenti dell’Organismo di vigilanza, nonché sul fatto che debbano o possano essere figure esclusivamente interne all’Ente, in parte interne ed in parte esterne o esclusivamente esterne. Va precisato che il Decreto legislativo 231/2001 nulla stabilisce in tal senso, lasciando all’organo amministrativo dell’Ente libertà di effettuare le scelte ritenute più opportune. Le uniche indicazioni che troviamo nel Decreto attengono gli Enti di piccole dimensioni, in cui i compiti dell’organismo di vigilanza possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente, nonché le società di capitali, in cui il collegio sindacale, il consiglio di sorveglianza e il comitato per il controllo della gestione possono svolgere le funzioni dell’ODV.
La nomina dell’Organismo di vigilanza è, pertanto, uno dei passaggi obbligatori, congiuntamente agli altri elementi previsti dal D.Lgs.231/01, per esimere l’Ente da responsabilità, ed è un atto sotto la responsabilità dell’organo amministrativo dell’Ente, che provvederà alla definizione e formalizzazione dell’incarico.
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La Legge 30 novembre 2017, n. 179, recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato» («Legge sul Whistleblowing») ha introdotto un sistema «binario», prevedendo una tutela sia per i lavoratori appartenenti al settore pubblico (modificando a tal fine il Testo Unico sul Pubblico Impiego) sia per i lavoratori appartenenti al settore privato, (modificando l’art. 6 del D.Lgs. 231/01).
La ratio sottesa all’adozione della normativa in esame è quella di individuare strumenti di tutela nei confronti dei lavoratori che denuncino reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito delle proprie attività lavorative.
La Legge sul Whistleblowing richiede che:
E’ previsto inoltre il divieto di atti di ritorsione o discriminatori nei confronti del segnalante per motivi collegati direttamente o indirettamente, alla segnalazione. A tal proposito, particolare rilevanza è assunta dal novellato art. 6, comma 2- quater, del Decreto 231, ai sensi del quale «il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo», così come il mutamento di mansioni nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria». In questo caso vi è l’inversione dell’onere della prova in capo al datore di lavoro che sarà tenuto a dimostrare che il provvedimento disciplinare adottato nei confronti del soggetto che ha fatto la segnalazione, ha delle motivazioni avulse rispetto alla segnalazione stessa.
A tal fine devono essere previste, all’interno del sistema disciplinare, le sanzioni nei confronti di chi viola suddetto divieto, nonché di chi «effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate».
Il segnalante o l’organizzazione sindacale da lui indicata può denunciare l’adozione di misure discriminatorie nei confronti del segnalante stesso all’Ispettorato nazionale del lavoro, per i provvedimenti di propria competenza.
Nonostante non specificatamente indicato dalla normativa, si ritiene che destinatario delle segnalazioni debba essere l’Organismo di Vigilanza, organo fra l’altro già demandato a ricevere i flussi informativi relativi alle risultanze periodiche dell’attività di controllo sull’efficace attuazione del Modello 231.
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